Comprendo perché vi sia una forte esigenza in tal senso: la burocrazia, a cui anche la medicina è assoggettata, ha bisogno di categorie diagnostiche ben definite, chiare e, se possibile, basate su criteri oggettivi. Siamo tanti, serve standardizzare. Eppure, in termini pratici, non vedo una particolare urgenza. La questione di fondo è che ci troviamo dinnanzi a un importante aumento del disagio psicologico, sempre più spesso presente in giovane età, con un ruolo importante giocato dall'ambiente sociale. A prescindere dalla diagnosi (sia essa "fobia sociale", "depressione", "ansia sociale", ecc. a seconda di quale sia la sintomatologia preponderante), l'intervento, affinché abbia esito positivo, dovrà essere quanto più multidisciplinare possibile e strutturato ad hoc sul singolo caso.
Personalmente non auspico che l'hikikomori diventi una categoria diagnostica. L'utilizzo di questo termine è utile soprattutto dal punto di vista della ricerca, affinché si parli tutti la stessa lingua, anche tra nazioni differenti. Se deve invece essere affibbiato modi etichetta a un soggetto che presenta un preciso quadro sintomatologico, allora il discorso cambia e non mi trova d'accordo.
Il mio invito è quello di interpretare l'hikikomori come un disagio adattivo di natura sociale all'interno del quale esiste una grande eterogeneità di casistiche, con l'unico elemento trasversale rappresentato da quella pulsione all'isolamento sociale descritta nel primo paragrafo del presente articolo. La sintomatologia, e le eventuali comorbidità, possono invece variare enormemente.
Losing You - LY |
Secondo quanto indicato in letteratura, esisterebbero almeno due tipologie di hikikomori: quello "primario", ovvero uno stato di isolamento indipendente da patologie mentali, e l'hikikomori "secondario", ovvero un'isolamento sopraggiunto come esito di una psicopatologia.
Per quanto mi riguarda, questa distinzione è irrilevante dal punto di vista "diagnostico" (anche, se appunto, di diagnosi non si dovrebbe parlare) poiché la discriminante rimane, in ogni caso, l'aspetto motivazionale, ovvero quella sfiducia, quel pessimismo e quella perdita di senso che intacca dapprima le relazioni interpersonali e poi l'esistenza nel suo complesso. Da quali esperienze sia scaturita tale interpretazione della realtà è difficile da determinare e comunque non altera la natura del problema.
L'hikikomori è sempre esistito, quello che cambia sono i numeri. Se prima si trattava di casi sporadici, oggi esistono delle precise dinamiche sociali che rendono tale disagio enormemente più diffuso, al punto da assumere le dimensioni di un fenomeno sociale mondiale.
Hikikomori e autismo
Fatta questa premessa, mi è più facile argomentare come anche l'autismo (ovvero un disturbo pervasivo dello sviluppo che coinvolge, in particolare, le competenze comunicative e quelle relazionali) possa essere potenzialmente una condizione predisponente rispetto all'hikikomori e non necessariamente un'alternativa diagnostica.Se pensiamo, ad esempio, alla sindrome di Asperger, una forma di autismo definita "ad alto funzionamento" proprio perché non comporta ritardi dal punto di vista intellettivo e dell'acquisizione del linguaggio, le possibili connessioni con l'hikikomori sono ancor più evidenti.
Abbiamo infatti ripetuto spesso che i soggetti in isolamento sociale volontario presentano solitamente un profilo caratterizzato da ansia, introversione, alta moralità e pensiero critico (o ipercritico), tutte variabili che trovano sovente connessione con un'alta competenza intellettiva, caratteristica, appunto, anche dell'Asperger.
A mio parere, dunque, la vera questione da porsi non è se un soggetto Asperger possa essere ANCHE un hikikomori (perché le due cose non si escludono), ma se il profilo psicologico tipico dell'Asperger sia predisponente all'hikikomori o meno. Come avrete capito, per quanto mi riguarda la risposta è positiva.
Conclusioni
La questione è sicuramente complessa e non esauribile in poche righe. Tuttavia, credo che il punto di osservazione del problema sia spesso fuorviante e determinato da un'impostazione mentale eccessivamente focalizzata sull'esigenza classificatoria, piuttosto che sulla risoluzione.Dobbiamo metterci il cuore in pace: non esistono dei criteri diagnostici oggettivi riguardo all'hikikomori e forzarli rischia solo di produrre ulteriori danni. Pensiamo ad esempio al Giappone, che ha stabilito che si possa parlare di hikikomori solo dopo un isolamento continuativo di almeno sei mesi. Come può questo essere utile ai fini preventivi? Dobbiamo aspettare che un ragazzo isolato da un mese arrivi a sei per poterlo classificare e attivare un intervento? Mi sembra ridicolo.
Manteniamo il focus sul problema: ci sono milioni di giovani che manifestano un disagio adattivo profondo, al punto da scegliere di vivere in uno stato di isolamento più o meno estremo. Come possiamo aiutarli? Questa rimane la domanda chiave alla quale trovare risposta.
Presidente e fondatore "Hikikomori Italia"