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Come si aiuta chi non vuole essere aiutato?


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Molti hikikomori ritengono di non avere alcun problema e ripetono di voler essere lasciati in pace. Questo atteggiamento di rifiuto porta inevitabilmente a continui conflitti con i genitori che, invece, vorrebbero vedere il figlio condurre una vita diversa, una vita "come quella dei coetanei".

I genitori più determinati, dopo lunghe battaglie, riescono a convincere i figli a recarsi da uno psicologo, ma i percorsi psicoterapeutici possono rivelarsi inconcludenti quando non vi è una reale motivazione intrinseca da parte degli hikikomori a cambiare il proprio stato. Spesso, chi accetta di essere seguito da un professionista lo fa solamente per "fare contenti gli altri" e per far cessare le pressioni dei famigliari.



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"Io sto bene, perché volete costringermi a fare una vita diversa?"

Questa è una delle principali obiezioni che potrebbe avanzare un hikikomori. E non è necessariamente una bugia. In quel momento potrebbe davvero sentirsi bene e desiderare fortemente proseguire il proprio stile di vita, ma questo significa che un genitore dovrebbe rinunciare ad aiutarlo? No.

Il punto principale è che gli hikikomori spesso sottostimano gravemente l'impatto che la propria scelta avrà sul loro benessere futuro. Lo sottostimano o, semplicemente, evitano di pensarci, non gli importa. Fuori sto male, dentro sto meglio. Da un certo punto di vista è un ragionamento logico, lineare, sensato. Il trionfo del "qui e ora".

Ma il diritto che ognuno ha di vivere la propria vita come meglio crede cessa nel momento in cui la propria scelta grava sulle spalle di altri.


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È possibile aiutare qualcuno che non vuole essere aiutato?


Tornando alla nostra domanda, la risposta è "sì". Non solo è possibile, ma è anche un dovere farlo. L'importante, però, è che si tengano sempre in mente questi tre punti, a mio parere fondamentali:

  • non lo sto facendo per me: quando vogliamo a tutti i costi aiutare una persona dobbiamo sempre ricordarci che lo stiamo facendo per il suo bene, non per il nostro. Quindi l'obiettivo non deve essere quello di spingere nostro figlio a vivere la vita che noi riteniamo essere più giusta per lui, ma semplicemente aiutarlo a trovare la sua strada, la vita che speriamo possa renderlo più sereno (anche se non corrisponde al nostro modello di vita ideale);
  • posso aiutarlo fino a un certo punto: l'impatto che le nostre parole e le nostre azioni possono avere sulla vita di un'altra persona non può mai superare determinati limiti. È doveroso provare ad aiutare una persona che riteniamo essere in pericolo, ma allo stesso tempo, non possiamo agire per conto di quella persona e la nostra responsabilità sulle sue scelte è, giustamente, ridotta. Ognuno è padrone della propria vita, anche nostro figlio.
  • devo continuare a vivere la mia vita: quando si ha un figlio in difficoltà si farebbe di tutto pur di aiutarlo, anche sacrificare il proprio benessere personale. Eppure, un atteggiamento di abnegazione rischia di provocare l'effetto opposto in un hikikomori, il quale, sentendo su di sé maggiore pressione da parte dei genitori, potrebbe reagire isolandosi ancor più gravemente. Per questo motivo bisogna sforzarsi di continuare a condurre una vita normale senza farsi prendere dalla frenesia e dal panico. La parola d'ordine è sempre "pazienza".

Questi "consigli" sono il frutto del confronto con centinaia di genitori di ragazzi hikikomori facenti parte del gruppo Facebook a loro dedicato. Non vogliono suonare né arroganti, né pretenziosi e non sono ovviamente la soluzione al problema. 

Avere a che fare con un figlio hikikomori è probabilmente una delle sfide più difficili che un genitore può trovarsi a dover affrontare e richiede un impegno quotidiano che, solo chi lo ha vissuto in prima persona, può davvero capire.
Presidente e fondatore "Hikikomori Italia"




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