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Perché l'hikikomori riguarda soprattutto i maschi


Dai dati emersi in Giappone, e da quelli che ho raccolto in Italia internamente alla nostra associazione genitori, sembra evidente che l’hikikomori rappresenti un fenomeno sociale principalmente maschile: addirittura la percentuale italiana si attesterebbe intorno al 90%, contro il circa 70% riportato dal paese nipponico.

Ho già spiegato in un precedente articolo perché tali dati potrebbero essere condizionati da una cultura che vede la donna come maggiormente centrata nel contesto casalingo, tale per cui, soprattutto nelle prime fasi dell'isolamento, l'allarme generato nella famiglia risulterebbe minore.

Eppure, sono convinto che il fenomeno riguardi effettivamente più i maschi, per una serie di ragioni che proverò ad approfondire in questo articolo dedicato.


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Cos’è il “ruolo di genere”?

Diciamolo chiaramente: non esistono ragioni strettamente biologiche per cui l’hikikomori riguardi maggiormente gli esseri umani di sesso maschile rispetto a quelli di sesso femminile. Dunque, tutte le cause di questa differente incidenza statistica vanno ricercate all’interno delle diverse pressioni socio-culturali legate al ruolo di genere, ovvero a ciò che noi percepiamo che gli altri si aspettano dai noi per il solo fatto di essere identificati come maschi o femmine.

Attenzione, il ruolo di genere è un costrutto esclusivamente sociale e può non coincidere con il sesso biologico. Ad esempio, se un maschio che soffre di “Disforia di genere” decide di assumere socialmente le sembianze di una donna, al punto da essere percepito come tale (indipendentemente se abbia completato o meno la transizione da un punto di vista biologico), le aspettative sociali legate al suo ruolo di genere saranno le stesse delle altre donne.

Le pressioni sociali legate al ruolo di genere maschile

Come abbiamo spesso ripetuto, la causa sociologica madre dell’hikikomori è la pressione alla realizzazione personale, fattore che ci condiziona in tutti gli ambiti della nostra vita. In questo paragrafo analizzerò nello specifico le pressioni che riguardano i maschi, le quali sembrano essere particolarmente predisponenti rispetto allo sviluppo di una pulsione all'isolamento sociale.


Pressioni scolastiche e lavorative

Storicamente il maschio è colui che, all’interno della coppia eterosessuale, ha la responsabilità del mantenimento economico della moglie e dei figli. Tale aspettativa sociale è notevolmente cambiata negli ultimi anni, con un maggiore accesso delle donne nel mondo del lavoro e una conseguente maggiore indipendenza, anche all’interno di un eventuale legame matrimoniale. 

Eppure, come dimostrano alcuni studi (Paa & McWhirter, 2011), le aspettative da parte della famiglia sulla carriera scolastica e lavorativa dei maschi rimangono mediamente più alte rispetto a quelle riposte sulle femmine, maggiormente orientate, invece, verso i ruolo tradizionali di madre e compagna.

L'uomo stesso interiorizza questo suo destino di lavoratore, a tal punto che nel paese nipponico si parla molto ultimamente del karoshi, ovvero delle morti per eccesso di lavoro, fenomeno riguardante per la stragrande maggioranza maschi fortemente identificati nel proprio ruolo di genere e pronti a tutto pur di non deludere le aspettative sociali.


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Pressioni relazionali

Nel ruolo di genere maschile la socializzazione con i pari è un aspetto caratterizzante, tanto che nelle scienze sociali è stata coniata l’espressione “male bonding”, che identifica il classico spirito di intesa, cooperazione e fraternità che contraddistingue i gruppi composti da maschi. Chi è inibito socialmente o ha, in generale, minore predisposizione nell’instaurare questa tipologia di legame, subisce forti pressioni, come nel caso degli hikikomori. 

Inoltre, secondo alcuni studi sembra che gli uomini, nonostante questo apparente slancio sociale, sviluppino legami amicali tendenzialmente più deboli rispetto alle donne (Sheets & Lugar, 2005) e rimangano dunque più soli nei momenti di difficoltà.

Pressioni corporee

Storicamente è sempre stata la donna ad aver avuto maggiore attenzione sulla propria immagine estetica poiché in passato l’attraenza rappresentava un fattore determinante per la crescita sociale femminile. Tuttavia, nonostante la progressiva indipendenza economica ottenuta, le pressioni sul corpo della donna rimangono molto alte anche nella società moderna, anzi, sono in grande crescita, come dimostrano i tanti casi di anoressia, una psicopatologia fortemente connessa a una dispercezione del corpo dettata dai modelli sociali proposti.

Eppure, anche la pressione sul corpo dell’uomo è in grandissimo aumento, tanto che esiste un corrispettivo sociale dell’anoressia relativamente al ruolo di genere maschile: la “bigoressia”, ovvero la volontà di diventare sempre più grossi, massicci e muscolosi, con l’obiettivo di essere percepiti come più virili, mascolini e attraenti (ne ho parlato approfonditamente in questo video).

Ebbene, di anoressia, problematica quasi esclusivamente femminile, si è parlato molto negli ultimi anni, mentre sulla bigoressia, quasi esclusivamente maschile, è stata fatta pochissima sensibilizzazione, nonostante i pericoli per il corpo e per la psiche non siano affatto minori

Pressioni sessuali

Ho lasciato questa tipologia di pressioni per ultime, ma ritengo siano spesso le più determinanti. Ne ho già parlato ampiamente in articoli precedenti, per cui non mi ci soffermerò molto. Ribadisco solo come il fallire nelle relazioni sentimentali e sessuali con i partner rappresenti una vergogna altissima per il maschio, molto di più che per la femmina, poiché nel ruolo di genere maschile le abilità sessuali sono fortemente connesse al proprio status sociale. 


Le donne non hanno pressioni sociali?

Le aspettative di realizzazione sociale descritte sono molto forti e in aumento anche sulle donne, soprattutto quelle legate all’aspetto fisico, esasperate dai canoni estetici altissimi veicolati in particolare dai social network.

In generale, non credo affatto che a livello quantitativo le donne abbiamo minori pressioni sociali legate al proprio ruolo di genere, ma sicuramente ci sono differenze sul piano qualitativo, per cui le modalità di reazione disfunzionali adottate variano anche a seconda del ruolo di genere di appartenenza.

Ad esempio, negli ultimi anni si è registrato un grande aumento del fenomeno del “cutting”, ovvero di provocarsi lesioni sul corpo come strumento per concretizzare, sotto forma di dolore fisico, una sofferenza psicologica che non si riesce a elaborare e gestire in altro modo. Le cosiddette “cutters” sono per la stragrande maggioranza ragazze, forse proprio perché il corpo per la donna rappresenta un grande fardello sociale che si desidera inconsciamente distruggere.


Tuttavia, il ruolo di genere maschile potrebbe essere effettivamente più soffocante di quello femminile, poiché, come riportato anche da Chiara Volpato nel libro “Psicologia del maschilismo”:

“L’identità sessuale femminile è messa in questione meno frequentemente di quella maschile; l’autentificazione della femminilità non richiede le prove, le competizioni, gli scontri richiesti ai maschi, probabilmente perché la femminilità si presenta come condizione biologica che può essere culturalmente affinata e perfezionata [...]"

Anche per questo motivo:

“[...] la preoccupazione che i ragazzi non diventino uomini è molto più diffusa della preoccupazione che le ragazze non diventino donne.” 



Già nel 1978, James Harrison pubblicava sul “Journal of Social Issues” un articolo che indagava il crescente gap nelle aspettative di vita tra gli uomini e le donne americane, identificando come causa principale della minore longevità maschile proprio l’ansia di dover aderire al ruolo di genere, con conseguenti sensazioni di fallimento e comportamenti autodistruttivi.

Agli uomini, a livello sociale, viene costantemente richiesta una prova della propria mascolinità, sia da parte degli altri uomini, sia da parte delle donne, e fallire in questo compito significa essere giudicati negativamente, significa vergogna: proprio quell’emozione da cui gli hikikomori fuggono attraverso il ritiro.

Perché non se ne parla?

A quanto abbiamo detto finora sulle pressioni legate al ruolo di genere maschile dobbiamo aggiungere un altro fattore, enormemente negativo: non se ne parla.

Veniamo da un periodo storico di profondi disparità tra i diritti degli uomini e quelli delle donne, con quest’ultime profondamente penalizzate ed emarginate in quasi tutti gli ambiti sociali, dal lavoro alla politica. Le grandi battaglie femministe avvenute nei secoli precedenti hanno ristabilito una parità di diritti in molte delle nazioni del mondo (non in tutte purtroppo), eppure ancora oggi permangono squilibri dettati dalle reminescenze di una cultura profondamente maschilista.

Questo ha contribuito a far sì che i temi femminili continuino ad avere un grandissimo risalto nell’opinione pubblica e, di conseguenza, sui mass media, mentre le difficoltà legate al ruolo di genere maschile rimangono sommerse, trascurate e profondamente sminuite.

In particolare negli ultimi anni, in televisione e sui giornali, la cronaca ha dato grandissima copertura ai crimini violenti commessi proprio dagli uomini nei confronti delle donne, in particolare stupri e omicidi (rinominati “femminicidi”). Il problema è serio, esiste ed è sicuramente giusto parlarne, ma la percezione distorta che ne deriva (l’agenda dei mass media ci porta a sovrastimare statisticamente l’incidenza di determinati eventi) contribuisce a demonizzare la figura maschile, generando sentimenti di colpevolizzazione trasversali negli uomini e creando un clima di ostilità, sospetto e pregiudizio sessista.

In un clima di questo tipo, qualunque battaglia venga portata avanti relativamente alle difficoltà degli uomini, verrà vissuta con sospetto, rabbia e indignazione, come fosse un tentativo di denigrazione delle battaglie femminili, oppure come se gli uomini non ne avessero il diritto in quanto socialmente privilegiati, in tutto e per tutto, o ancora, in quanto colpevoli di un passato tutt'altro che paritario.



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Censura e autocensura

Ad esempio, nel 2012 un’équipe di ricercatori dell’Università di Siena ha recuperato le domande di un sondaggio utilizzato pochi anni prima dall’ISTAT per indagare la violenza sulle donne (il cui responso ha avuto una grandissima diffusione sui media) e ha provato a riproporle a un campione di uomini tra i 18 e i 70. I risultati mostrano come una grande percentuale di loro abbia subito diversi abusi psicologici da parte delle partner, come, ad esempio, denigrazioni a causa della vita modesta consentita (50,2%) distruzione, danneggiamento di beni (47,1%) e minacce varie, come quella di impedire definitivamente ogni contatto con i figli (43,8%).


C'è un grande motivo per cui le problematiche maschili tendono ad affiorare con minore frequenza rispetto a quelle femminili: l’autocensura da parte degli uomini stessi. Esatto, perché il ruolo di genere maschile prevede storicamente anche una maggiore repressione delle emozioni negative e della sofferenza (tendenza esasperata nella cultura giapponese). Parlarne significa mostrarsi deboli e meno virili, con il rischio di esporsi al giudizio e alla vergogna.

In particolare, in una ricerca (Cramer & Neyedley 1998) è emerso come gli uomini siano molto più riluttanti delle donne nel confessare i sentimenti di solitudine. Insomma, la soluzione del problema è ostacolata dal problema stesso.

"L'uomo comune, che è stato esposto nel corso della sua vita a modelli di mascolinità tradizionale, ma che ha anche conosciuto le istanze di cambiamento provenienti dal mondo femminile e le nuove immagini proposte dalla politica e dai media, si trova oggi di fronte a modelli diversi e spesso contrastanti; il suo comportamento e il suo atteggiamento ne vengono influenzati secondo modulazioni dettate dalle preferenze individuali e dalla posizione sociale. Le sue reazioni di fronte a tante divergenti sollecitazioni e alla complessità delle richieste possono essere di riflessione e apertura al cambiamento, ma anche di sofferenza, insofferenza, crisi o, semplicemente, fuga."  


Conclusioni

Questo articolo non ha bandiera, né partito. Non vuole vittimizzare gli uomini e nemmeno colpevolizzare le donne. Non ne avrebbe alcun senso.

I ruoli di genere sono forti, e questo forse non lo cambieremo mai, eppure il problema principale è che sono ancora molto polarizzati e, dunque, fortemente connotanti. Essere identificati come uomini o come donne significa avere sulle spalle dei pregiudizi rispetto al nostro aspetto, al nostro pensiero e alle nostre azioni. Pregiudizi infondati scientificamente, poiché numerosi studi dimostrano come il sesso biologico, di per sé, determini pochissime differenze di funzionamento psicologico tra gli essere umani, tanto che sembra esistere una varietà maggiore internamente al gruppo sociale delle donne e internamente a quello degli uomini, piuttosto che nel raffronto tra i due (Hyde, 2005).

Personalmente auspico che si superi l'utilizzo del termine "femminismo", il quale rischia (almeno nelle democrazie occidentali, dove si è ormai raggiunta la parità di diritti) di assumere un'accezione negativa e discriminatoria. Rischia di generare uno scontro ideologico tra fazioni, o ancora peggio, tra sessi, dove ognuno cerca sostanzialmente di fare i propri interessi e dove, in definitiva, ne usciamo tutti sconfitti.

Presidente e fondatore "Hikikomori Italia"


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