Passa ai contenuti principali

L'intervento psicoeducativo domiciliare per hikikomori: progetto sperimentale in Lazio




In questo articolo verrà esposto l’intervento psicoeducativo domiciliare così come è stato progettato e realizzato dall’Area Psicologica dell’Associazione Hikikomori Italia per il Lazio. Prima di entrare nel dettaglio, però, è doverosa una premessa che inquadri il contesto ed il modello di riferimento.

Il primo testo scientifico in cui compare il termine "psicoeducativo" è del 1986 (Hogarty e coll.) e viene usato per indicare un tipo specifico di intervento rivolto non solo all’individuo ma anche alla famiglia. L’opportunità di coinvolgere la famiglia del trattamento del disagio è ormai un dato scientifico comprovato nell’ambito della psicologia per alcuni specifici disagi. La maggior parte degli studi, infatti, dimostra la necessità di coinvolgere il nucleo famigliare come prerequisito indispensabile per l’efficacia e l’efficienza dell’intervento in determinate tipologie di problematiche. Per il modello “psicoeducativo” è proprio la famiglia ad essere vista come una risorsa per affrontare e risolvere il disagio e sicuramente l’isolamento sociale volontario rientra perfettamente in questa visione.





Come affermato da numerosi studiosi del fenomeno, infatti, nell’hikikomori si riscontra un malfunzionamento del sistema di comunicazioni tra l’individuo, la famiglia e la società (Saito, 2003): una causalità di tipo circolare con influenze reciproche. E ancora, il problema non è il ragazzo, piuttosto esso si può ritrovare nel sistema di comunicazioni e relazioni che si è “rotto”; affinché il ragazzo possa cambiare è necessario che lo facciano anche gli adulti (Fogel, Kawai, 2006).

Da qui, ossia dal modello psicoeducativo di Hogarty (e di altri ricercatori) e dalle valutazioni dei principali specialisti internazionali in tema hikikomori, nasce la nostra riflessione sulla possibilità di sviluppare un protocollo operativo che preveda un intervento psicoeducativo domiciliare per la persona in isolamento, associato ad una serie di colloqui sulle competenze genitoriali destinate alla famiglia.

A nostro avviso, il lavoro sui genitori è un requisito indispensabile per la riuscita dell’intervento. Non possiamo pensare che un individuo, che nella maggior parte dei casi passa 24h al giorno all’interno della propria casa o comunque che è a contatto esclusivamente con i genitori, possa riuscire a superare il suo disagio senza che si agisca anche sul sistema in cui è inserito. Troppo spesso da noi arrivano genitori che, in modo più o meno esplicito, ci incaricano del mandato di aggiustare il loro figlio “rotto”. Ciò non è professionalmente possibile per noi psicologi/psicoterapeuti che lavoriamo costantemente con questo fenomeno. I casi trattati con successo, infatti, hanno sicuramente una caratteristica in comune: il coinvolgimento attivo dei genitori! Queste persone hanno lavorato duramente, a volte con dolore e fatica (si, non è sicuramente facile), esprimendo le loro emozioni, le angosce, le paure, la rabbia; si sono messe in gioco, hanno sperimentato, hanno chiesto aiuto, sono cadute e si sono rialzate durante un percorso che non è stato breve ma che, alla fine, ha permesso di vedere il traguardo tanto agognato.


L'Emotività Espressa

Per comprendere meglio il ruolo famigliare nel fenomeno degli hikikomori, prendo in prestito il concetto di Emotività Espressa (EE), sviluppato a partire dagli studi del gruppo di ricerca di G. Brown presso il Medical Research Council di Londra nel 1958.

Per Emotività Espressa si intende l’indice della “temperatura emotiva” in famiglia: “un indicatore dell’intensità della risposta emotiva dell’ ambiente famigliare in un dato momento temporale: Essenzialmente l’indice è un rivelatore della mancanza di affetto del familiare o del suo interessamento eccessivamente invadente nei confronti del paziente” (C. Vaughn,1988).

Questo significa che i poli opposti (entrambi evidentemente disfunzionali) sono due:
  1. mancanza di affetto famigliare (rifiuto della persona, critiche eccessive, ostilità, atteggiamenti passivo aggressivi)
  2. invadenza eccessiva (eccessivo coinvolgimento nella vita del figlio, controllo, sostituzione, iperidentificazione, sacrifici per il bene del figlio, risposte emotive eccessive, drammatizzazione)

Le famiglie ad alta EE solitamente sono quelle che si sostituiscono al figlio nelle azioni quotidiane o nei pensieri (“dovresti fare questo, è per il tuo bene”, “io so cosa è giusto per te”), controllano costantemente; si avvicinano cercando il contatto senza osservare le risposte verbali o non verbali dell’altro; sono svalutanti, conflittuali, criticano in maniera più o meno esplicita ogni tentativo di autonomia e/o di ribellione (perché o non è abbastanza oppure perché è troppo).

Le famiglie a bassa EE, invece, sono in grado di sintonizzarsi con la persona, di avvicinarsi quando è il momento e di allontanarsi se la situazione lo richiede; sono in grado di comunicare prendendo in considerazione la prospettiva dell’altro; lasciano alla persona la possibilità di sbagliare, di cadere e di rialzarsi.

Secondo Minuchin e coll. (1978) la principale criticità di queste famiglie è che ci sono ruoli confusi, individualizzazione esasperata e tentativi continui di mantenere l’equilibrio, seppur disfunzionale, negando invece “inconsciamente” che ci sia bisogno di un cambiamento del sistema per riuscire finalmente a risolvere il problema.
Questo non vuole essere un puntare il dito, o un colpevolizzare dei genitori già provati di loro. Come dico spesso non esistono colpe ma responsabilità: il senso di colpa blocca mentre l’assunzione di responsabilità permette il cambiamento. Ed è questo che voglio trasmettere attraverso ciò che ho esposto: la necessità di prendere consapevolezza dell’importanza del vostro ruolo cari genitori. Sappiamo che tutto ciò che avete fatto lo avete portato avanti convinti di fare il bene di vostro figlio, ma a volte questo non basta. Senza contare che “Se fai quello che hai sempre fatto, otterrai quello che hai sempre ottenuto” (A. Robbins).

Quindi per riuscire ad aiutare i vostri figli noi professionisti abbiamo bisogno di voi. Non è un’ammissione di debolezza da parte nostra (anzi!) ma una presa di coscienza che non ce la possiamo fare senza voi genitori!


La nostra esperienza

Dopo questa lunga premessa torniamo agli interventi psicoeducativi domiciliari, così come sono stati progettati nel Lazio, e che sono (come già accennato) volti sia alla singola persona in isolamento (incremento di competenze individuali, relazionali e sociali) che alla famiglia (diminuzione dello stress, dell’emotività espressa, creazione di comunicazioni funzionali, incremento delle competenze genitoriali) al fine di intervenire sul disagio e ridurre il rischio di ricaduta.

Indispensabile è il lavoro di equipe, a tal proposito il progetto è stato impostato nel seguente modo: la richiesta arriva alla mail istituzionale dell’area psicologica dell’Associazione hikikomori Italia (solitamente da parte dei genitori), una delle due coordinatrici psicologhe si mette in contatto con il/i genitore/i per fissare un colloquio conoscitivo in cui verrà fatta un’accurata analisi della domanda e valutata la fattibilità dell’intervento. Successivamente verrà selezionato lo psicologo più idoneo al caso (per interessi comuni, esperienza e vicinanza di età anagrafica) che inizierà il processo di contatto e di creazione di una relazione con la persona in isolamento sociale volontario. Questa fase è molto delicata e può richiedere anche molto tempo perché, come ben sa chi si occupa del fenomeno, gli hikikomori sono persone che hanno perso fiducia sia nell’altro che nelle relazioni interpersonali e hanno bisogno di tempo per fidarsi e affidarsi a qualcuno. Per questo motivo per l’intervento a domicilio sono stati selezionati esclusivamente psicologi/psicoterapeuti con esperienza domiciliare e formati in ambito hikikomori; oltre a ciò è stata valutata la necessità di trovare professionisti non lontani dall’età anagrafica delle persone in isolamento in modo tale da riuscire ad entrare meglio in relazione con loro. I genitori, invece, sono seguiti dallo psicoterapeuta referente di zona con esperienza in ambito famigliare e nell’isolamento sociale volontario.

Nello specifico gli obiettivi generali dell’intervento psicoeducativo domiciliare sono:

  • attivazione di risorse personali e famigliari;
  • incremento dell’autostima, del problem solving e dell’autonomia;
  • (ri)acquisizione di un senso esistenziale e di un progetto di vita sviluppando interessi, passioni e competenze individuali;
  • miglioramento del funzionamento sociale (sia dell’individuo che della famiglia) e diminuzione conseguente dell’isolamento;
  • sviluppo delle capacità comunicative e relazionali (sia intrafamigliari che extrafamigliari);
  • attivazione di strategie di coping funzionali e di problem solving (sia della persona in isolamento che della famiglia);
  • aumentare la conoscenza sul fenomeno hikikomori (per la famiglia).

Gli incontri domiciliari, per essere efficaci, hanno bisogno di un tempo adeguato (sia per durata che per frequenza) e, per questo motivo, si è stabilita una cadenza almeno bimensile. Per quanto riguarda i colloqui a studio (essenziali per la prosecuzione dell’intervento domiciliare) dei genitori con gli psicoterapeuti, invece, la frequenza è mensile. Entrambi i professionisti (sia quelli domiciliari che a studio) collaborano costantemente in sinergia al fine di perseguire gli stessi obiettivi e valutare l’efficacia dell’intervento. Sovente gli stessi sono in contatto con professionisti del territorio già attivi sul caso (psichiatri, neuropsichiatri, assistenti sociali, insegnanti etc…) sempre nella consapevolezza che il lavoro di rete è una risorsa indispensabile per agire efficacemente sull’isolamento sociale volontario.

A conclusione dell’articolo vorrei ringraziare tutti i colleghi psicologi dell’equipe del Lazio e la dott.ssa Rosanna D’Onofrio, che condivide con me il ruolo di coordinamento nel Lazio, per la passione, l’impegno ed il continuo confronto su un fenomeno ancora troppo poco trattato nel nostro ambito professionale.



Dott.ssa Chiara Illiano, psicologa e psicoterapeuta, coordinatrice Area Psicologica dell’Associazione Hikikomori Italia per il Lazio




Seguici su 

Post popolari in questo blog

Come si aiuta chi non vuole essere aiutato?

ITA |  ENG Molti hikikomori ritengono di non avere alcun problema e ripetono di voler essere lasciati in pace. Questo atteggiamento di rifiuto porta inevitabilmente a continui conflitti con i genitori che, invece, vorrebbero vedere il figlio condurre una vita diversa, una vita "come quella dei coetanei". I genitori più determinati, dopo lunghe battaglie, riescono a convincere i figli a recarsi da uno psicologo, ma i percorsi psicoterapeutici possono rivelarsi inconcludenti quando non vi è una reale motivazione intrinseca da parte degli hikikomori a cambiare il proprio stato. Spesso, chi accetta di essere seguito da un professionista lo fa solamente per "fare contenti gli altri" e per far cessare le pressioni dei famigliari. Losing You - LY "I o sto bene, perché volete costringermi a fare una vita diversa?" Questa è una delle principali obiezioni che potrebbe avanzare un hikikomori. E non è necessariamente una bugia. In quel momen

Come approcciare un hikikomori: buone prassi e comportamenti da evitare

ITA | ENG Avere a che fare con un hikikomori rappresenta una compito delicato per chiunque , si tratti di un genitore, di un insegnante, di un amico o di uno psicologo, dal momento che ci si trova a doversi relazionare con persone profondamente negative, sfiduciate e disilluse nei confronti dei rapporti interpersonali. Per non essere respinti bisogna cercare di aggirare le barriere che hanno eretto nei confronti del mondo sociale , evitando qualsiasi tipo di forzatura o atteggiamento supponente, ma ponendosi come degli interlocutori umili, empatici e non giudicanti. Losing You - LY In questo post ho voluto provare a riassumere i comportamenti che, sulla base della mia esperienza, si sono rivelati propedeutici a raggiungere dei risultati positivi e quelli che, al contrario, tendono a generare nell'hikikomori ulteriore chiusura e possono, talvolta, aggravarne la condizione di isolamento. Comportamenti consigliati 1. Riconoscerne la sofferenza Anche se la

I tre stadi dell'hikikomori: dai primi campanelli d'allarme all'isolamento totale

ITA |  ENG La definizione originaria giapponese di hikikomori prevede che il soggetto sia isolato completamente per un tempo minimo di 6 mesi.  Personalmente, ritengo poco sensato e scarsamente utile in termini pratici fare riferimento a tale definizione in modo rigido. L'hikikomori, per come lo intendo io, è una pulsione all'isolamento sociale che può essere più o meno intensa e meglio o peggio contrastata dal soggetto che la esperisce in base a una serie di fattori personali e ambientali (temperamento, ambiente famigliare, ambiente scolastico, ambiente sociale, ecc.). L'isolamento totale e prolungato descritto nella definizione precedentemente citata, non è che l'ultima fase di un processo graduale , ovvero quando il soggetto che percepisce la pulsione a isolarsi, decide, per una serie di concause, di abbandonarsi a essa e smettere di provare a contrastarla. Losing You - LY